lunedì 25 novembre 2013

Scampia : “Il non Luogo” tra storia e architettura.


Le Vele" di Scampia sono edifici costruiti nella periferia nord di Napoli (Secondigliano) tra il 1962 ed il 1975, dall’ Architetto Paolo di Salvio, 4 delle 7 strutture iniziali sono state abbattute tra il 1997 ed il 2003, ne restano in piedi ancora 3 attualmente abitate, da circa 70.000 inquilini, tra cui gli sfollati del terremoto che ha colpito Napoli nel 1980 e in parte da disperati che hanno occupato abusivamente gli scantinati sotto i palazzi.

Sono in pochi gli occupanti vincitori del bandi di concorso delle case popolari, a questi si sono aggiunte numerosi sfollati, tutti accomunati dall’ esigenza di avere un tetto sulla testa e un basso reddito familiare.



Per capire ciò che è accaduto a Scampia nei famosi anni 60, quando è stato stilato il progetto, bisogna innanzitutto conoscere la storia del quartiere e delle strutture.


Le Vele sono costruzioni molto prominenti, indubbiamente belle dal punto di vista architettonico ma frutto di una cultura urbanistica particolare che già all’ epoca della costruzione degli edifici andava scemando e comunque male adatte alla situazione Napoletana.
In realtà sulla carta il progetto si presentava estremamente interessante se non rivoluzionario, le sette vele avevano lo scopo di plasmare le forme della convivenza civile, nelle forme delle strutture architettoniche, insomma dovevano divenire dei veri e propri quartieri-rione con l’intento di favorire l’integrazione degli abitanti e ospitare centinaia di famiglie che necessitavano urgentemente di un abitazione.
Per quanto riguarda la cultura urbanistica che produsse questi mostri di cemento, si era affermata in Italia dopo che le condizioni di sviluppo industriale capitalistico, che le avevano determinate, erano in esaurimento.
Per questo Scampia viene considerata come il frutto di una cultura urbanistica fordista, concepita per lo sviluppo occupazionale nella grande fabbrica e per la produzione di massa della società del pieno impiego, con regolarità di occupazione e di salario. Infatti la città era stata progettata con grandi viali che avrebbero consentito collegamenti veloci con il centro mentre le grandi torri abitative divise in parchi e giardini avrebbero consentito la divisione tra funzione amministrativa, abitativa e commerciale. .

L’idea del quartiere popolare residenziale, del quartiere dormitorio quindi era il frutto non solo di una cultura d’epoca, ma i grandi spazi disponibili erano concentrati su una nuova visione ecologica “il rispetto tra area verde e area costruita” che finirono poi per diventare inutili e grandissime spianate con effetti di agorafobia per chiunque.
Nel frattempo gli edifici - solidissimi - cominciarono a degradarsi al loro interno. Nessuna vita sociale ed economica di quartiere si realizzava soprattutto per la totale assenza di negozi o botteghe artigianali.
Il tutto si aggravò con le occupazioni degli scantinati. Nel giro di una decina d’anni Scampia è divenuta famosa per la criminalità organizzata e meglio conosciuta ai giorni nostri come la più grande piazza di spaccio d’Europa.

Infatti i termini della questione non sono cambiati di molto neanche oggi.

Per ottenere la riqualificazione di un territorio che mancava fino a pochi anni fa di servizi pubblici tra i più elementari, come l’assenza fino al’97 di un commissariato di polizia, aperto solo quindici anni dopo lo sviluppo delle abitazioni, e non solo, la mancanza di asili nido mercati rionali, palestre, farmacie e attrezzature mediche... i fabbricanti troppo impegnati nella costruzione di abitazioni hanno trascurato la realizzazione di servizi che avrebbero dovuto innervare il tessuto urbanistico del quartiere.
Come se non bastasse la mancanza di lavoro, di istruzione e di servizi utili hanno legato le famiglie della zona ai “clan” camorristici locali facendo diventare il quartiere un vero e proprio mercato dell’ imprenditoria criminale.
Se si vuole attuare un progetto di riqualificazione del territorio bisognerebbe tenere innanzitutto conto dei fattori che hanno portato questa costruzione modello a divenire modello di criminalità organizzata, e analizzare le cause esterne che non fanno che aumentare la reputazione (negativa) della zona, che viene immaginata come un inferno sulla terra senza scampo. Un luogo di perdizione dove circolano droga, armi e baby gang.

Innanzitutto non tutti sanno che sono stati avviati molti progetti di rivalorizzazione della zona e che le costruzioni benché degradate dal tempo sono estremamente solide.

Ad esempio nel 1997 grazie al piano di recupero sono state costruite nuove abitazioni dove sono stati trasferiti alcuni tra gli abitanti legali delle Vele; molti sono abituati a pensare a Scampia come un luogo dove vivono tutti i delinquenti e i loro capi, rintanati nel loro ghetto, ma non è così, certo c’è una forte percentuale di criminalità , ma ci sono anche molte altre abitazioni, altri quartieri residenziali, abitati dalla piccola- medio borghesia. Mentre per quanto riguarda i grandi boss, non vivono certo in palazzine affollate come le Vele,i loro progetti sono ben più ambiziosi, si nascondono in grandi capitali europee, lussuose in zone molto più ricche e meno popolate di Scampia, ne è la prova la Villa del boss Walter Schiavone. Estremamente estranea al concetto di affollamento la Villa con i suoi 850 mq su tre livelli ospitava un'unica famiglia, niente in confronto ai 70.000 abitanti delle vele, ma molto più vicina a uno stile hollywoodiano nascosta dietro un cancello di ferro alto cinque metri che celava La facciata della villa, una piccola Miami a Casal di Principe.


Sono proprio i monumenti all’ eccesso come questo che offuscano gli occhi dei giovani, gli forviati dalla povertà, sono gli eccessi come questo che ti fanno credere di poter uscire dalle vele, di poter comandare, di arrivare ai livelli di personaggi immaginari come Tony Montana o peggio ancora personaggi oscuri che hanno costruito la loro autorità sulla delinquenza e lo sfruttamento delle condizioni di degrado della loro terra.
Tutta Italia sa di questo luogo infausto, sa della droga in ogni angolo, delle condizioni disumane di vita, del fatto che le vele sono alveari per uomini e della camorra che impera. Sa perfino della «resistenza» vera o presunta, della musica degli «A 67» e dei «ragazzi di Scampia» a
Sanremo. Forse sa dell'Arci-Scampia, della associazione «Hurtado» e delle altre coraggiose associazioni di quartiere, sa che a Scampia si lotta e si vive e che ci abitano tante persone degne e non solo i camorristi.
La gente le sa queste cose, ma le «Vele» sono ancora qui e ci resteranno a lungo.
Se si continua a gonfiare l’immagine di Scampia e a presentarla come il quartiere dei disperati, della droga e della delinquenza… come un po’ tutti fanno, chi con buone chi con cattive intenzioni…
Se si continua a precludere il diritto di essere onesti, il diritto di esserci come esseri umani, come gente che vuole lavorare che vuole migliorare, il diritto di non essere rifiutati perché di zone malfamate, questi incorreranno sempre nelle stesse difficoltà, sempre più stretti nel loro ghetto, che gli da quello che il mondo esterno non concede a chi viene da Scampia, solidarietà e rispetto in quanto esseri umani, non mostri.
Se è vero che l’identità di un individuo è legata al quartiere e alle relazioni che intercorrono tra i vari abitanti, allora bisogna dare una nuova vita all’ immagine del Luogo, un nuovo volto a Scampia bisogna ammettere che la situazione e critica e cercare di risolverla.
È importante sostenere l’impegno per il trasferimento degli abitanti nelle nuove strutture, che rappresenta sicuramente un passo fondamentale. Anche se non basta, non si tratta solo di questo, il problema non è la costruzione in se ma la mancanza di servizi.
Bisogna attrarre gente e attività nell’area trovando delle soluzioni che rendano interessante il trasferimento di attività produttive e occorre lavorare per migliorare la qualità della vita analizzando la zona dal punto di vista sociale, e psicologico degli abitanti, si necessità di uno studio approfondito del luogo e degli effetti che ogni cambiamento opera sull’ ambiente e sugli abitanti del luogo.


Solo così può essere data a Scampia una nuova identità, una nuova storia e un nuovo modo di relazionarsi con il mondo.


Ed è per questo motivo che definisco Scampia un “nonluogo”, perché chi vive li non ha diritto ad avere una storia propria, un identità, non ha il diritto di relazionare col mondo esterno, perché chi viene da Scampia è di Scampia.
Definisco Scampia un non luogo perché è il frutto di una civiltà che non ha guardato al singolo ma al raccoglimento della massa,che ha concepito uno spazio costruito per un fine e non ha tenuto conto delle relazioni che si sarebbero stabilite al suo interno.
Secondo Augè viene stabilito un legame tra l’ambiente e l’individuo che vi abita, mentre certi luoghi non esistono che attraverso le parole che li evocano nel nostro caso molte piaghe di Napoli saranno riconducibili alle zone malfamate, in questo senso non luoghi, stereotipi banalizzazioni di un concetto.
E luogo comune definire Napoli la città della pizza e di Pulcinella, ma anche la città della Camorra, del contrabbando degli imbrogli, ed è per questo che ho voluto riproporre un itinerario che vada da Napoli all’ altra NAPOLI, un percorso che mostri le sue ferite, che cerca di sensibilizzare e non di mascherare con l’arte, il mare, e i monumenti: “Napoli una città che ama sentirsi ferita a morte ma che in realtà non muore mai”(R. Saviano).I non luoghi hanno questa caratteristica comune: di essere riconducibili a schemi, a frasi fatte; come quando facciamo la spesa o siamo in aeroporto, in viaggio, riconosciamo delle frasi di carattere informativo, prescrittivo o proibitivo che mediano le nostre azioni, che ci condizionano ci segnalano cosa fare, sempre in questo stato di perenne solitudine conforme ad un etichetta un veto.
A mio parere sono le stesse informazioni che condizionano chi vive in un grosso ghetto come nel caso delle Vele, ci sono delle leggi (anche se tacite) da rispettare, delle norme da seguire, sempre in solitudine durante una faida,anche qui c’è l’esigenza di un “documento” che certifichi la nostra esistenza, un soprannome che ci dia un identità, che ci conferma di appartenere a quel mondo con le sue tradizioni e le sue usanze.

lunedì 18 novembre 2013

La magia del reale-Zumthor

Peter Zumthor, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Architettura dall’Università degli Studi di Ferrara, Facoltà di Architettura. (Non credo ci sia nient'altro da aggiungere.)

“Esiste la magia della musica. Inizia la sonata,
una prima linea melodica in calando della viola,
poi inizia il piano, e già essa si fa sentire: la commozione;
l’atmosfera fatta di suoni, che mi avvolge e mi tocca,
che mi mette in un particolare stato d’animo.
Esiste la magia della pittura e della poesia,
del film, delle parole e delle immagini,
esiste l’incanto delle idee brillanti.

Ed esiste la magia del reale, del materiale, del corporeo,
delle cose che mi circondano, che vedo e tocco, che respiro e sento.
Talvolta, in determinati momenti, questa sensazione di incanto,
che mi provoca la vista di un determinato scenario architettonico o paesaggistico,
di un certo ambiente, scaturisce all’improvviso,
come una lenta espansione dell’anima, che dapprima non avverto nemmeno.
È giovedì santo. Sono seduto nella lunga loggia della Tuchhalle.
Davanti a me il panorama della piazza con le facciate delle case, la chiesa e i monumenti.
Il caffè alle mie spalle. La giusta quantità di gente.
Un mercato dei fiori. Il sole.
Sono le undici del mattino. Il lato opposto della piazza
è all’ombra, risulta di un gradevole colore azzurrognolo. Rumori meravigliosi:
conversazioni vicine, passi sulla piazza lastricata in pietra,
uccelli- questi abitanti dell’aria,
un debole mormorio della folla (niente macchine, niente motori roboanti),
a tratti in lontananza rumori di cantieri.
Le imminenti giornate festive sembrano già aver rallentato il passo delle persone.
Due suore attraversano la piazza gesticolando animatamente;
il passo leggero fa svolazzare i loro veli nel vento.
Ognuna ha in mano una borsa di plastica.
La temperatura è piacevolmente fresca e calda al contempo.
Sono seduto su un sofà imbottito, di velluto verde pallido.
La statua di bronzo sull’alto basamento davanti a me nella
piazza mi volge le spalle e guarda, come me, verso la chiesa con le due torri.
Le due torri della chiesa hanno le cupole diverse, in basso sono uguali, poi,
salendo, si distinguono sempre di più l’una dall’altra.
Una è più alta e porta una corona d’oro sulla sommità della cupola.
Tra poco, da destra, mi raggiungerà B., attraversando la piazza in diagonale.
Queste le parole che annotai allora nel mio taccuino
per descrivere l’atmosfera della piazza,
perchè tutto quello che vedevo mi piaceva veramente tanto.
Oggi, rileggendole, mi chiedo, cos’è che mi ha toccato così fortemente allora?
Tutto! Tutto, le cose, le persone,
la qualità dell’aria, la luce, i rumori, i suoni e i colori.
Presenze materiali, strutture, e forme. Forme che riesco a comprendere.
Forme che posso cercare di leggere.

Forme, che trovo belle.
Ma, allora,
oltre a tutte queste presenze materiali, oltre alle cose e alle persone,
non c’era anche qualcos’altro che mi toccava-
qualcosa che riguardava solo me, il mio
stato d’animo, i miei sentimenti, le mie aspettative del momento in cui ero seduto lì?

“The beauty lies in the eyes of the beholder”-

questa è la frase che mi viene in mente in questo momento.
Vuol forse dire, questa frase, che tutto quello che
provai allora era solamente o prevalentemente espressione e frutto del mio
stato d’animo, del mio umore?
La mia esperienza di allora, forse, era solo in minima parte
riconducibile alla piazza e all’atmosfera che in essa regnava?
Per rispondere a questa mia domanda faccio un semplice esperimento:
immagino che la piazza scompaia, e già le mie sensazioni
legate alla situazione di allora iniziano a scemare,
rischiano di svanire.
Noto che senza l’atmosfera di questa piazza
non avrei mai provato tali emozioni.
Ora lo avverto nuovamente: c’è un’interazione tra le nostre sensazioni
e le cose che ci circondano. È un fenomeno con cui mi confronto in quanto architetto.
Io lavoro sulle forme, sulle fisionomie, sulle presenze materiali che costituiscono
il nostro ambiente. Con il mio lavoro contribuisco a creare i tratti tangibili,
le entità fisiche dello spazio, che innescano le nostre emozioni.
La magia del reale è per me quell’alchimia che trasforma le
sostanze materiali in sensazioni umane, quel momento particolare
di appropriazione emotiva o di trasformazione della materia
e della forma presenti nello spazio architettonico.
In quanto architetto posso far funzionare una casa di villeggiatura,
un edificio commerciale o un aeroporto. Posso costruire
appartamenti ben strutturati a prezzi accessibili, posso
progettare teatri, musei d’arte o showroom che facciano parlare di sè,
posso dotare le mie costruzioni di forme che soddisfino l’esigenza
di innovazione o di originalità, di rappresentatività o di particolari stili di vita.
Fare tutto questo non è così semplice. C’è bisogno
di lavoro. E di talento. E ancora di lavoro. Ma le mie aspettative
nei confronti di un’opera architettonica ben riuscita, frutto di quei particolari momenti
di esperienza architettonica individuale, vanno oltre queste considerazioni e mi inducono a chiedermi:
sono in grado io, architetto, di progettare anche l’effetto reale di un’opera architettonica,
quell’intensità e quell’atmosfera uniche, quella sensazione di presente, di benessere,
di pertinenza, di bellezza? È possibile progettare quel quid che costituisce,
in un determinato momento, la magia del reale,
il cui turbine mi fa sperimentare e cogliere qualcosa che altrimenti non coglierei
con la stessa intensità?
Ci sono edifici o complessi edilizi piccoli e grandi, imponenti e importanti,
che mi fanno sentire piccolo, che mi opprimono, che mi escludono,
mi respingono. Ma ci sono anche edifici o complessi,
piccoli o enormi, nei quali mi sento bene,
che mi rendono bello, che mi trasmettono una sensazione di dignità e libertà,
nei quali mi trattengo volentieri, che uso volentieri.
Queste opere sono la mia passione.
Così, nel mio lavoro cerco di concepire, e, di conseguenza,
di costruire, i miei edifici come corpi:
come anatomia e pelle, come massa,
membrana, come stoffa o involucro,
tela, velluto, seta e acciaio scintillante.
Mi curo di accostare bene i materiali e di esaltarli,
prendo una certa quantità di legno di rovere, un po’ di tufo
e vi aggiungo ancora qualcosa:
tre grammi d’argento, una maniglia da girare,
superfici di vetro scintillante, di modo che
ogni composizione di materiali diventi un unicum.
Sto attento all’acustica dell’ambiente,
alla sonorità di materiali e superfici
e al silenzio, come presupposto dell’ascolto.
La temperatura dell’ambiente è importante per me,
il fresco e le gradazioni del calore che accarezzano il corpo.
Penso agli oggetti personali che le persone
dispongono tutt’intorno a sè in certi spazi
per lavorare, per sentirsi a casa, e per i quali io individuo
l’idonea collocazione e per i quali predispongo lo spazio.
Mi piace l’idea di disporre le strutture interne dei miei edifici
in maniera tale da lasciare che le sequenze di spazi ci guidino,
ci conducano, ma anche che ci lascino liberi e ci seducano.
L’architettura come arte dello spazio e del tempo tra
tranquillità e seduzione.
Cerco di rappresentare attentamente la tensione tra
interno ed esterno, sfera pubblica e intimità,
dedico attenzione alle soglie, ai passaggi e ai confini.
Ed il gioco con il metro dell’architettura,
il lavoro sulle giuste dimensioni delle cose,
è guidato dal desiderio di ottenere diversi gradi di intimità,
varie sfumature di vicinanza e distanza, e per me è un piacere far illuminare
dal sole materiali lucidi e opachi, superfici e spigoli,
e creare masse profonde e gradazioni d’ombra e oscurità,
con tutta la loro carica misteriosa, al fine di enfatizzare
la magia della luce sulle cose. Fino a quando non risulta tutto alla perfezione. ”
(P. Z. Haldenstein, 08 dicembre 2003)
La magia del reale”

venerdì 15 novembre 2013

L'ordine delle cose


Se è vero che "Dio è nei dettagli" (Mies) è doveroso aggiungere che la sua presenza si manifesta attraverso i rapporti aurei e la successione di Fibonacci.

Prima di vantarci dicendo che fu Dio il primo architetto, mi sembra doveroso spendere poche righe sulle matrici auree e la successione ricorsiva.

La sezione aurea può essere considerata la matrice generatrice di grandi opere d'arte. Utilizzata dagli architetti e artisti del passato di cui citiamo alcune opere quali le piramidi di Giza, il Partenone, l'arco di Costantino, Notre Dame, l'uomo Vitruviano, la Gioconda, l'Annunciazione, rappresenta la madre generatrice delle meraviglie create dall' uomo, ma ancor prima generate dalla natura. Non a caso se ne sono serviti Leonardo, Le Corbusier, Botticelli, Mondrian.

In stretto rapporto con la successione di Fibonacci, scoperta da Leonardo da Pisa nel 1202, consiste in una serie di numeri detti successione ricorsiva numerica  (1,1,2,3,5,8,13....) è stata correlata alla sezione aurea solo nel Rinascimento da Keplero. Risulta che il rapporto tra due numeri consecutivi si avvicina sempre di più al numero aureo detto anche numero D'oro raggiungendone il valore preciso a 987\610=1,618033.
Ma non solo la serie di Fibonacci si manifesta continuamente in natura nel numero dei petali dei fiori, nella crescita delle foglie e dei rami.
Ad esempio la spirale aurea è presente nella filotassi delle pigne che si ripropongono nella serie 8,13,e,21 nelle conchiglie e persino nell'attorcigliarsi della coda di alcuni animali.
Insomma la vera e propria matrice generatrice dell' universo.

Dopo questa breve introduzione, potremmo parlare all' infinito dei rapporti aurei, vorrei evidenziare come le Corbusier utilizza la spirale aurea, generata da quarti di circonferenze inscritte nei quadrati che a loro volta hanno generato il rettangolo aureo. I rettangoli utilizzati nel Modulor (1986) sono aurei e tutte le misure non a caso rispettano la sequenza numerica di Fibonacci creando un armonico rapporto tra le parti.
Insomma sembra che un adeguato utilizzo di questi rapporti sia la carta vincente nella realizzazione di grandi opere, o almeno un proporzionamento armonico tra le parti.